Politica

Pubblicato il 6 Marzo 2024 | di Alessandro Bongiorno

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Autonomia differenziata, la «preoccupazione» della CeSi

Il disegno di legge sull’Autonomia differenziata, in discussione in Parlamento, continua a suscitare la «preoccupazione» dei vescovi di Sicilia. L’argomento è stato al centro dell’ultima riunione della Conferenza episcopale Siciliana che si è riunita, per la sessione primaverile, al Seminario estivo di Castell’Umberto (Diocesi di Patti). Al termine dei lavori ha espresso una serie di osservazioni sulle «criticità» già evidenziate e che ancora permangono. Si tratta di aspetti che riguardano profili di carattere costituzionale, generale, finanziario, procedurale. A preoccupare soprattutto è la ricaduta che queste misure possono avere in una terra che, nonostante l’ampia autonomia di cui gode, ha visto e vede un gap rispetto alle altre regioni non più accettabile. Da questo punto di vista, i vescovi siciliani, rivolgono un appello, in primis alla «classe dirigente politica siciliana», affinché lo Statuto trovi piena attuazione. Per la CeSi occorre «reagire agli squilibri strutturali ed economici fortemente presenti nel meridione e che potrebbero portare a colpire in modo grave l’unità nazionale in favore di preoccupanti spinte secessioniste istituzionalizzate».

La Sicilia potrebbe trovarsi immersa, sottolineano i vescovi, in uno «scenario che potrebbe vedere uno Stato “arlecchino” con 20 regioni con profili istituzionali uno diverso dall’altro. Ricordiamo che secondo degli studi fatti dalla Ragioneria Generale dello Stato, la Sicilia perderà 1 miliardo e 300 milioni di euro circa l’anno: un impatto disastroso per una economia già in grande sofferenza».

Queste nel dettaglio le osservazioni al disegno di legge sull’Autonomia differenziata, espresse dai vescovi siciliani:

Le prime criticità rilevate nella comunicazione del maggio 2023 attenevano essenzialmente alle incertezze che attengono ai rapporti finanziari, alle risorse economiche, a fronte di un Sud del Paese che ha un enorme bisogno di risorse e che ha problemi strutturali storici che andrebbero risolti, attraverso un percorso reale, fattivo ed in tempi brevi capace di assicurare una risposta unica, certa e definitiva.

Il quadro delineato dall’originario DDL appariva, invero ancora lo è, caratterizzato da un’architettura che tende a creare asimmetrie all’interno di un regionalismo asimmetrico. Si era espressa una prima forte perplessità sull’art. 3 in ordine alla fonte scelta per la determinazione dei LEP (DPCM) (livelli essenziali delle prestazioni) da parte del Governo, criticità non completamente risolta con il nuovo testo. Così come era stato criticato il riferimento all’utilizzo della spesa storica per quelle regioni che intendono chiedere maggiore autonomia differenziata. Infatti tale indicatore, oltre ad essere superato, farebbe allargare ancora di più la forbice della disomogeneità territoriale delle regioni italiane. Inoltre sussistevano forti perplessità sulle misure perequative finalizzate a riequilibrare le forti disomogeneità territoriali che sono state parzialmente recepite nel DDl definitivamente approvato dal Senato.

Si rilevano ancora delle criticità nel testo inviato alla Camera.

In primo luogo manca un esplicito e necessario richiamo all’art. 2 Cost. fonte del dovere di solidarietà sociale in favore dei soggetti meno abbienti, che costituirebbe un ulteriore e migliore ancoraggio costituzionale anche a garanzia e vincolo nella determinazione dei LEP. Ricordiamo che la differenziazione è da considerarsi come un corollario del principio di sussidiarietà in un processo di razionalizzazione dimensionale delle competenze tra centro e periferia. Se ne deve inferire che la dislocazione differenziata di funzioni legislative in singole Regioni non è affatto un adempimento costituzionalmente necessario, o addirittura un “diritto” di alcune Regioni (o dei loro “popoli”). Deve invece considerarsi come possibilità di adeguamento del quadro dei poteri, ove prevale l’esigenza di una più piena attuazione del principio di sussidiarietà verticale e orizzontale e dopo dei suoi corollari. A tal proposito il novellato testo (Art. 4) richiama l’attenzione sul pericolo di evitare disparità di trattamento sull’intero territorio nazionale, ma è proprio dalle previsioni normative in esso contenute che tale rischio emerge.

In primo luogo appare poco prudente la scelta di consentire al Governo di adottare dei decreti legislativi per la determinazione dei LEP posto che con tale scelta il Parlamento, attraverso delle Commissioni, potrà soltanto esprimere un parere su quanto deciso dal Governo ed in caso di silenzio il Decreto legislativo potrà essere comunque adottato (cfr Art .3, comma 2 ult. periodo).

Occorre, a questo punto, soffermarsi con maggiore attenzione sulla fonte che il disegno di legge prevede per la definizione dei LEP, per il fatto che viene indicata l’approvazione attraverso un atto amministrativo – il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri – che può provocare più di una perplessità se si considera la cornice costituzionale che lo concerne. La collocazione di tale categoria nella disposizione della Carta fondamentale, che sancisce il criterio di riparto delle competenze legislative tra lo Stato e le Regioni, conduce inevitabilmente a ragionare su fonti primarie: e non solo la fonte, ma anche la procedura da rispettare per fissare contenuti che danno consistenza ai diritti, sono aspetti sì procedurali, ma che necessariamente incidono sulla sostanza dei medesimi, come già da tempo la dottrina più avvertita ha raccomandato.

Anche gli artt. 5 e 6 presentano ancora delle serie criticità. In particolare si osserva che si procede ad individuare le modalità di finanziamento delle funzioni attribuite attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale, mentre sarebbe più utile prevedere una distribuzione delle responsabilità fiscali per avere delle politiche finanziate in modo responsabile. La compartecipazione si collega alla produttività dei territori regionali, con la conseguenza che territori maggiormente produttivi avrebbero introiti maggiori di altre realtà territoriali con una produttività storicamente ridotta e ciò trasformerebbe la differenziazione in diseguaglianza con l’evidente rischio di colpire concretamente la coesione dei territori mettendo in grave pericolo l’unità nazionale.

Infine nell’art 10, dedicato alle misure perequative, non v’è traccia di fondo perequativo di solidarietà nazionale che permetta di riequilibrare le forti disomogeneità territoriali. Fino a che le regioni del meridione (ai fini perequativi vanno integrate le capacità di entrate da economia sommersa delle regioni per avere un dato più affidabile della loro effettiva capacità fiscale) non raggiungono, con un fondo dedicato, almeno la media della capacità fiscale nazionale per abitante non si può affrontare per nessuna regione il tema dell’autonomia differenziata a meno che non si preveda un fondo di solidarietà nazionale vincolato a sanare le disparità delle capacità fiscali territoriali, le cui risorse vengono distribuite con funzioni, sia di compensazione delle risorse attribuite in passato, sia di perequazione. Anche la riduzione del cosiddetto “fondo complementare” da 4 miliardi e 400 milioni di euro, a poco più di 700 milioni di euro rappresenta un ulteriore rischio per le regioni più povere.

La Sicilia si trova immersa in questo scenario che potrebbe vedere uno Stato “arlecchino” con 20 regioni con profili istituzionali uno diverso dall’altro. Sulle 23 materie ogni regione potrà scegliere quali avocare a sé e quali no. Ricordiamo che secondo degli studi fatti dalla Ragioneria Generale dello Stato, la Sicilia perderà 1 miliardo e 300 milioni di euro circa l’anno: un impatto disastroso per una economia già in grande sofferenza.

Ricordiamo però che la Sicilia ha già dal secolo scorso una sua specialità che è molto più rilevante della differenziazione. Bisogna rammentare gli artt. 36,37 e 38 dello Statuto della Regione Siciliana. In particolare l’articolo 36 dello statuto stabilisce: “Al fabbisogno finanziario della Regione si provvede con i redditi patrimoniali della Regione e a mezzo di tributi, deliberati dalla medesima. Sono però riservate allo Stato le imposte di produzione -accise- e le entrate dei tabacchi e del lotto”. Ad esso si aggiunge l’art 38: “1. Lo Stato verserà annualmente alla Regione, a titolo di solidarietà nazionale, una somma da impiegarsi, in base ad un piano economico, nella esecuzione di lavori pubblici. 2. Questa somma tenderà a bilanciare il minore ammontare dei redditi di lavoro nella Regione in confronto della media nazionale. 3. Si procederà ad una revisione quinquennale della detta assegnazione con riferimento alle variazioni dei dati assunti per il precedente computo. Basta solo leggere per comprenderne l’enorme portata istituzionale.

A tale potente strumento, si aggiunge anche il comma 5 dell’art. 119 Cost. inserito dall’art. 1, comma 1, della legge costituzionale 7 novembre 2022, n. 2 che riconosce le peculiarità delle Isole e promuove le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità.

Quindi, oltre che rilevare ciò che di critico esiste nell’attuale riforma, la classe dirigente politica siciliana dovrebbe chiedere al governo nazionale l’attuazione completa dello statuto e non sprecare le risorse in dotazione, in tal modo sarebbe avviato un percorso di superamento delle criticità portate dalla riforma sull’autonomia differenziata.  Le fondate superiori preoccupazioni rappresentate, siano intese quale stimolo per reagire agli squilibri strutturali ed economici fortemente presenti nel meridione e che potrebbero portare a colpire in modo grave l’unità nazionale in favore di preoccupanti spinte secessioniste istituzionalizzate.

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Autore

Giornalista, redattore della Gazzetta del Sud e condirettore di Insieme. Già presidente del gruppo Fuci di Ragusa, è laureato in Scienze politiche.



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