Rassegna Stampa

Pubblicato il 5 Febbraio 2016 | di Redazione

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Utero in affitto e ddl Cirinnà: una riflessione etica

“Rocca” n. 2 del 15 gennaio 2016

La questione della «madre surrogata» o dell’«utero in affitto» – il termine tecnicamente più preciso è «gestazione per altri» (gpa) – è venuta, negli ultimi mesi, con insistenza alla ribalta anche nel nostro paese. A renderla attuale è stato il dibattito sul disegno di legge Cirinnà relativo ai diritti delle unioni omosessuali che andrà prossimamente in discussione in Parlamento. Il nodo maggiormente critico di tale disegno è costituito dalla cosiddetta stepchild adoption, ossia dalla possibilità di adozione, anche nel caso di coppia omosessuale, del figlio del partner.

La giustificazione che si adduce è che questa possibilità, oltre a rendere paritetico il rapporto dei due membri della coppia nei confronti del figlio, assicura soprattutto a quest’ultimo la tutela dei propri diritti nel caso in cui il padre o la madre originari venissero a mancare. L’assenza di tale dispositivo comporta infatti che l’uomo o la donna che non sono direttamente padre o madre non godano di alcun diritto nei confronti del figlio del partner, e non siano conseguentemente vincolati da alcun dovere e da alcuna responsabilità nei suoi confronti. La proposta Cirinnà è accusata di costituire una sorta di «cavallo di Troia» attraverso il quale si introdurrebbe di fatto – non certo di diritto perché la legge 40 non lo prevede – il consenso all’utero in affitto.

La possibilità del ricorso all’adozione finirebbe infatti per favorire chi ricorre alla pratica della surrogazione avendo la garanzia di un riconoscimento del bambino come figlio della coppia. A reagire con forza nei confronti di tale progetto sono stati anzitutto alcuni ambienti del mondo cattolico, che, muovendo talora da rigide posizioni ideologiche, sono giunti ad affermare che si tratterebbe in realtà di un’escamotage truffaldina. Ma la reazione che ha suscitato maggiore clamore è stato l’appello proveniente dal gruppo femminista «Libere», che opera all’interno del movimento «Se non ora quando», e sottoscritto, tra le altre, da Stefania Sandrelli, Grazia Francescato, Cristina Comencini e Dacia Maraini. In tale appello, che non si riferisce direttamente alla proposta Cirinnà, si legge: «Nessun essere umano può essere ridotto a mezzo. Facciamo appello alle istituzioni europee – Parlamento, Commissione e Consiglio – affinché la pratica della maternità surrogata venga dichiarata illegale in Europa e sia messa al bando a livello globale».

Si tratta di affermazioni drastiche, che non possono essere sospettate di confessionalismo e che rivelano la gravità di una prassi, che mette seriamente a repentaglio la dignità della donna.

le ragioni del rifiuto
Non sono certo mancati interventi duri di esponenti del mondo Lgbt, che non hanno esitato a definire omofobica tale presa di posizione, addebitandola alla più bieca cultura di destra e accusandola di mettere seriamente in discussione l’intero impianto del disegno di legge Cirinnà.

Per questo è importante mettere anzitutto a fuoco le motivazioni del «no» alla maternità surrogata – un «no» peraltro presente nei dispositivi legislativi della stragrande maggioranza degli Stati europei – evidenziandone l’alto significato antropologico ed etico. La prima di tali motivazioni è presente nell’appello delle femministe citato, laddove, facendo eco a un noto principio kantiano, si sottolinea l’esigenza che nessun soggetto umano venga trattato come mezzo ma sempre come fine, e che, di conseguenza, non possa venire subordinato al perseguimento di un altro obiettivo, fosse pure alto e nobile.

La inaccettabilità etica della maternità surrogata è perciò dovuta al fatto che la ricerca della propria felicità avviene mediante lo sfruttamento della donna, il cui corpo è ridotto a semplice macchina incubatrice per conto di terzi. Si tratta di una forma di egoismo individualistico, che non valuta il trauma cui è sottoposta colei che si trova a portare in grembo una creatura, sentendola crescere dentro di sé per nove mesi, partorendola e dovendola poi consegnare ad altri. Se poi si considera che questo avviene, nella stragrande maggioranza dei casi, con donne povere, appartenenti a classi disagiate e ad aree socialmente marginali, le quali vengono indotte dalla loro condizione ad offrire il proprio corpo per danaro -non è irrilevante che la maggior parte delle coppie italiane, in larga misura eterosessuali, che ricorrono alla maternità surrogata si rivolgano a paesi come l’Ucraina, la Russia, l’India e il Nepal – appare evidente l’immoralità di un mercimonio che fa di esse – come ci ricorda la nota femminista francese Sylviane Agacinski -le vere «schiave moderne».

Accanto a queste considerazioni riguardanti il rispetto della dignità e dei diritti della donna, non manca (e non è meno rilevante) – è questo il secondo ordine di motivazioni – la scarsa attenzione ai diritti del bambino. Lo sdoppiamento della maternità, tanto nel caso della coppia eterosessuale che di quella lesbica – accanto alla madre biologica vi è infatti la madre che lo ha generato – può dare origine a una situazione conflittuale – si pensi soltanto alla eventualità che la madre che lo ha portato in grembo fino alla nascita rivendichi il proprio diritto alla maternità nei confronti della coppia committente -con ricadute pesantemente negative sullo sviluppo della personalità del bambino.

Analogamente (e in termini ancor più problematici), questo succede nel caso in cui a ricorrere alla maternità surrogata è una coppia gay. Non è difficile in questo caso immaginare, accanto ai rischi già richiamati, il disagio del bambino, che scopre l’esistenza della propria madre, la quale risulta essere, nella maggior parte dei casi, del tutto estranea alla sua vita.

Le obiezioni più rilevanti
Non mancano tuttavia situazioni, sia pure con una rilevanza quantitativa minimale, nelle quali a sottoporsi alla maternità surrogata sono persone la cui disponibilità è frutto di altruismo. È questo il caso di madri che si offrono di portare a compimento la gravidanza per la propria figlia che si trova nell’impossibilità di farlo o di altre donne che si mettono, senza nulla pretendere, al servizio delle coppie che non sono in grado di avere altrimenti un figlio. Vi è allora chi obietta: perché non ammettere, in questi casi la pratica della maternità surrogata, la quale non ha qui nulla a che fare con l’utero in affitto?

La risposta non può che essere negativa. La ragione di fondo sta nella considerazione che introdurre, sia pure entro confini precisi (peraltro difficilmente definibili), la maternità surrogata finirebbe per dare luogo a una inevitabile deriva, con lo sviluppo degli effetti negativi già ricordati. Siamo qui di fronte a un limite invalicabile della legge, la quale – come già affermava Aristotele – vale nella pluralità dei casi ma non nella totalità (in pluribus sed non in omnibus), e lascia per questo sempre sussistere eccezioni o casi emergenti.

La gravità delle conseguenze implicate dal riconoscimento della pratica della maternità surrogata esige che si proceda con il massimo rigore: l’interesse generale non può che avere il sopravvento su quello particolare. A questa prima obiezione se ne associa un’altra, riguardante le coppie gay, le quali, al contrario delle coppie lesbiche, non possono che ricorrere, per avere un figlio, alla maternità surrogata. La proibizione di tale pratica – si osserva – provocherebbe una disparità nei diritti; darebbe cioè luogo a un stato di vera sperequazione. Ora, a parte le considerazioni già fatte circa la strumentalizzazione della donna e il possibile disagio del bambino, non si può dimenticare che esistono altre strade per l’esercizio della genitorialità – basti pensare all’adozione – e che ci si deve confrontare, d’altronde, con alcuni limiti naturali mai totalmente superabili.

Esiste un diritto assoluto al figlio proprio?
Ma, al di là delle considerazioni fin qui fatte, si deve riconoscere che la questione di fondo, la quale rende, in definitiva, ragione delle differenti posizioni sulla maternità surrogata, è quella del diritto della coppia al figlio proprio. Vi è, a tale riguardo, chi pensa che tale diritto sussista ed abbia carattere di assolutezza e chi, invece, ritiene che si possa semplicemente parlare di legittimo desiderio, il cui esercizio deve fare concretamente i conti con i limiti della realtà.

L’appello delle femministe ricordato, fornisce in proposito una risposta inequivocabile. «Siamo favorevoli – si legge nel documento – al pieno riconoscimento dei diritti civili per lesbiche e gay, ma diciamo a tutti, anche agli eterosessuali: il desiderio di figli non può diventare un diritto da affermare a ogni costo». La trasformazione del desiderio in diritto incondizionato, oltre a condurre talora alla negazione dei diritti fondamentali dell’altro – è il caso della donna che si sottopone alla pratica dell’utero in affitto con la perdita della propria dignità – finisce per dare vita a una logica del possesso, che si proietta (e non può che proiettarsi) anche nel rapporto con il figlio, con il rischio di non rispettarne l’autonomia decisionale, e dunque di limitarne la libertà.

E la legge Cirinnà?
Non si può, infine, eludere un’ultima domanda. Il «no» alla legalizzazione della maternità surrogata implica automaticamente – come alcuni hanno ventilato – il rifiuto della proposta di legge Cirinnà? Non lo riteniamo. Intanto perché non esiste nel nostro ordinamento giuridico alcun presupposto che possa far pensare a una eventuale legalizzazione della maternità surrogata. Ma poi soprattutto perché la stepchild adoption si limita a prendere atto di una situazione già esistente – la presenza di una creatura venuta al mondo tramite la fecondazione artificiale o l’utero in affitto – e a regolamentarla, tenendo in considerazione l’interesse preminente del bambino, al quale vengono assegnati due genitori, anziché uno, garantendogli in tal modo una condizione di maggiore sicurezza.

Il fatto che la richiesta venga talora da chi è ricorso a una discutibile pratica, scavalcando la legislazione del proprio paese per andare a comprare un figlio attraverso lc sfruttamento di una donna indigente mettendolo, fin dall’inizio, in una condizione di difficoltà, non depone di per sé a favore della concessione. Ma non si può (e non si deve), in ogni caso, dimenticare -come si è più volte sottolineato – che i diritti del bambino godono di un’assoluta priorità, e vanno per questo tutelati e promossi senza alcuna limitazione.

di Giannino Piana

sperarepertutti.it

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"Insieme" esce col n° 0 l'8 dicembre del 1984. Da allora la redazione è stata la "casa di formazione" per tanti giovani che hanno collaborato con passione ed impegno.



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